A cura di Edilberto Sacchi, Counselor Professionista operatore del Centro di Ascolto Territoriale (C.A.T) ASPIC
Il linguaggio è espressione diretta della visione del mondo di popoli, gruppi, individui.
Attraverso il linguaggio, l’uomo dà nome alle cose e, nel farlo, attribuisce loro ordine, relazioni e senso. “In principio era il Verbo” recita il celebre verso d’apertura del Vangelo secondo Giovanni, mentre è ancora più esplicita la leggendaria formula magica “abrakadabra”, derivante dall’aramaico antico, il cui significato sottolinea, ancora una volta, il potere della parola: “creerò come parlo” (Duranti, 2000). Il portato della potenza generativa del linguaggio, riguardo alla percezione di eventi e vissuti personali, assume dunque di fatto un ruolo di centralità nell’esperienza di ciascuno. Ed è facilmente immaginabile come nel corso di un lavoro di crescita personale il binomio comunicazione/consapevolezza sia frequentemente oggetto di osservazione e di lavoro sia per il counselor che per il cliente. Un’attenzione consapevole all’utilizzo che facciamo delle nostre parole e forme comunicative, dalla selezione di specifici vocaboli o strutture sintattiche, all’omissione di particolari elementi del discorso, fino alla rappresentazione d’insieme, offerta in merito a vissuti o accadimenti rilevanti, costituisce uno strumento fondamentale per potenziare le condizioni di crescita, autoconsapevolezza e cambiamento all’interno della relazione d’aiuto.
Il rapporto tra linguaggio e visione del mondo nei popoli
Uno degli elementi più affascinanti a riprova di quanto il linguaggio sia strettamente collegato con l’esperienza che facciamo della realtà che ci circonda, in una sottile relazione tra interno ed esterno, tra fenomeno e interpretazione soggettiva, sono i tanti esempi antropologici che ci mostrano come la varietà di forme e strutture linguistiche sia al contempo condizionata e coerente con le specifiche esperienze ambientali, sociali ed economiche dei diversi gruppi umani. Il popolo nomade dei Navajo (America settentrionale), ad esempio, utilizza due categorie verbali del tutto differenti per descrivere eventi in cui sia presente o assente l’idea di movimento (1996, Ember C., Ember M.). Allo stesso modo molti popoli che vivono in proprietà condivise, all’interno di gruppi parentali o comuni, non posseggono forme transitive per indicare l’idea di possesso: “io ho” diventa per queste genti “esso è a me” (2003, Lavenda, Schultz). Nella maggior parte delle culture africane, improntate allo scambio comunitario e solidale, non esiste un termine specifico per designare l’idea di “povero” in senso economico e le parole utilizzate hanno spesso il significato di “orfano”, perché in Africa la miseria è relativa all’assenza di sostegno sociale (2007, Giusti, Sommella). Così presso gli Xavante del Brasile, popolo di orgogliosi guerrieri nomadi dalla struttura sociale prevalentemente egalitaria, si riscontra una forte tendenza a sovrapporsi al parlato l’un dell’altro, ripetendo o parafrasando quanto detto dal parlante principale; questo comportamento viene rapportato allo scopo di nascondere l’individualità e creare un discorso prodotto collettivamente, attraverso riecheggiamenti, inserimenti di discorso, riformulazioni, indice di un’ideologia più egalitaria di quella implicita nel discorso monologico. Ma lo stile linguistico può avere anche implicazioni politiche, capace di determinare da solo tanto l’ordine sociale quanto la visione del mondo di un popolo: Maurice Bloch evidenzia come il carattere oratorio adottato dagli anziani nei cerimoniali religiosi dei Merina del Madacascar sia fortemente formalizzato e stilizzato per formule, elemento che, accanto all’esecuzione cantata, riduce gli spazi per contraddittorio e potenzialità critiche insite nella creatività linguistica e conferisce al discorso religioso autorità piena sulle cose del mondo (2000, Duranti). Si potrebbe andare avanti per molto. Come ben sa, chiunque abbia avuto modo di imparare e praticare un idioma diverso da quello acquisito nei primi anni di vita, studiare una lingua differente dalla propria non significa applicare nuove etichette a vecchi oggetti, ma imparare a identificare nuovi oggetti recanti nuove etichette (2003, Lavenda, Schultz). Il grandissimo antropologo Claude Levy-Strauss affermava infatti “dire lingua equivale a dire società”, indicando come le società siano continuamente create mediante atti comunicativi, connessi tra loro in modo ricorsivo, pur non necessariamente identici, per riprodursi nel tempo, nonostante le differenze tra gli individui che ne fanno parte (2015, Lévi-Strauss).
Il rapporto tra linguaggio e visione del mondo nella persona
Ebbene, lo stesso si potrebbe ipotizzare delle nostre vite quotidiane in relazione al modo in cui ce le raccontiamo. Del rapporto tra evoluzione personale e parola, si sono interessati in modo particolarmente approfondito Richard Bandler, informatico e studioso di matematica, e John Grinder, professore di linguistica, che nei primi anni ’70 del XX secolo, sviluppano una complessa teoria, tutt’ora dibattuta, nota come Programmazione Neurolinguistica. Secondo i due ricercatori, nel processo che interessa il passaggio dalla percezione sensoriale degli stimoli provenienti dall’ambiente esterno, all’elaborazione logico-linguistica dei dati di realtà, gli esseri umani si avvalgono di rappresentazioni mentali. Queste “riproduzioni interne”, costruite attraverso il linguaggio e i sistemi rappresentazionali legati alla sfera sensibile (vista, udito e tatto/olfatto), vengono definite con il nome di mappe (1981, Bandler, Grinder). Ed è proprio quando queste mappe risultano non adeguatamente congruenti con la realtà a cui fanno riferimento che si determina una limitazione della consapevolezza e delle possibilità di azione del soggetto. Bandler e Grinder si chiedono “com’è possibile che esseri umani diversi, posti di fronte allo stesso mondo, abbiano esperienze tanto differenti?” (1981, Bandler, Grinder, p.32) e individuano la risposta nella differente ricchezza delle rappresentazioni sviluppata da individuo a individuo: quando queste non offrono abbastanza scelte e la mappa viene confusa definitivamente con la realtà, le nostre rappresentazioni interne possono trasformarsi in veri e propri blocchi, una fonte di impoverimento di visione e possibilità di scelta.
Il proceso di counseling, grazie al supporto e all’agevolazione di un professionista della relazione d’aiuto, consente di individuare le eventuali aree in cui queste limitazioni sono attive, innescando, attraverso una rinnovata consapevolezza e attenzione all’utilizzo del linguaggio, un cambiamento concreto sul proprio modo di guardare a sé stessi e al mondo che ci circonda.
Bibliografia
Bandler ,R. Grinder, J. (1981). La struttura della magia. Roma: Astrolabio.
Duranti A. (2000). Antropologia del linguaggio. Roma: Meltemi.
Ember C. R., Ember M. (1996). Antropologia Culturale. Bologna: Il Mulino.
Giusti F., Sommella V. (2007). “Storia dell’Africa. Un continente fra antropologia, narrazione e memoria”. Roma, Donzelli.
Lavenda F., Schultz E. (2003). Antropologia Culturale. Bologna: Zanichelli.
Lévi-Strauss C. (2015). Antropologia Strutturale. Milano: Il Saggiatore.
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