A cura di Edilberto Stefano Sacchi, Counselor Professionista operatore del Centro di Ascolto Territoriale (C.A.T) U.P.ASPIC
LA VOCE DELLE COSE: DALL’OGGETTO AL SEGNO
Breve analisi transdisciplinare sul significato e i fondamenti della relazione simbolica intercorrente tra l’uomo e il mondo degli oggetti.
A tutti noi è capitato di scoprire, prima o poi, di essere particolarmente affezionati a un oggetto qualsiasi. Ed è spesso un rapporto particolare quello che intratteniamo con le cose che ci circondano, nelle abitazioni o nei luoghi di lavoro in cui viviamo tutti i giorni: se ne stanno lì, al loro posto, testimoni silenziosi e disponibili, forieri di una continuità il cui sapore può variare con gli oscillamenti che accompagnano le naturali evoluzioni dei nostri stati d’animo. Eppure, appunto, solo alcuni tra loro riescono a ispirare in noi un particolare sentimento di attenzione, un legame sottile e affettuoso, che ha spesso la profondità degli anni o di particolari momenti a cui li percepiamo collegati; ci sentiamo “protetti” dalla loro vicinanza, ci incaponiamo a ripararli, anche quando ormai evidentemente usurati o, al contrario, cominciamo a detestarli, nonostante fino a poco tempo prima fossero risultati assolutamente familiari e armonici con l’ambiente in cui li abbiamo vissuti.
Che esista di fatto una differenziazione di valore all’interno del variegato mondo di strumenti, ricordi, cianfrusaglie che ciascuno di noi custodisce in casa propria, ci viene brillantemente spiegato dal filosofo italiano Remo Bodei attraverso un semplice confronto, di carattere linguistico ed etimologico, tra i termini “cosa” e ”oggetto”: per quanto nel linguaggio comune i due siano considerati pressocché sinonimi, esiste di fatto una precisa differenza. L’italiano “cosa” è infatti la contrazione del latino “causa”, ovvero un elemento che riteniamo talmente importante o coinvolgente da mobilitarci in sua difesa e, come il greco “pragma”, il latino “res” o il tedesco “Sache”, può non avere a che fare con un oggetto fisico, di natura specificamente materiale, ma rinviare a qualcosa di più ampio, di cui si parla, che si pensa o che ci sta a cuore. “Oggetto” deriva invece da “obicere”, “gettare contro”, trasferendo un’idea di ostacolo, un problema capace si contrapporsi alla piena realizzazione del soggetto, obbligandolo al confronto per l’affermazione di sé, da condurre fino alla sopraffazione dell’ostacolo stesso, rendendo infine l’oggetto disponibile al possesso, alla manipolazione e all’assimilazione.
È dunque quando gli “oggetti” si fanno “cose” e cessano di essere meri strumenti che si animano e diventano realtà con cui instauriamo relazioni particolari. A tal proposito, diversi e affascinanti studi sul rapporto dell’uomo con la dimensione materiale nelle società dei consumi di massa, condotti da illustri antropologi, come Mary Douglas, Daniel Miller o Arjun Appadurai, hanno trovato un punto di convergenza nel riconoscere la natura del tutto personale dei manufatti e degli oggetti di consumo che, una volta investiti di precisi significati simbolici e inseriti in contesti culturalmente e affettivamente significativi per la persona che li ha scelti, diventano soggetti essi stessi, con una individualità inscritta nella loro forma e nella loro età: contrariamente allo scenario omologante che un mercato fondato sulla produzione di massa e sugli scambi globalizzati potrebbe portarci a ipotizzare, l’uomo, ci spiega Miller, ha la capacità di rendere le cose “simili a sé stesso”. Mentre si appropria di un particolare elemento, la persona attua simbolicamente un processo complementare di espansione e modifica di sé, arricchendosi degli svariati ordini di valore (sociale, economico, estetico, culturale) che riconosce nell’oggetto scelto. Questo, divenuto a questo punto “cosa”, nell’accezione descritta da Bodei, aiuta a rinsaldare le relazioni sociali, riproduce differenze e gerarchie , come un soggetto a sé stante esprime di fatto una sua sensibilità e personalità, è possibile affermare che in qualche modo nasca, maturi e invecchi, sviluppando perfino forme proprie di parentela e affinità con manufatti simili (alcune cose “stanno bene insieme”), evolva e muti (le cose della nostra vita vengono di fatto classificate e riclassificate al mutare dei contesti, sia personali che storico-sociali). Le cose, potremmo dire in definitiva, hanno di fatto una loro biografia.
Dunque la cosa non è un mero oggetto, poiché arricchita di particolari valori simbolici, capaci perfino di ispirare sottili forme di affettività. A illustrare i fondamenti di questo genere di processo è stato, nella seconda metà del ‘900, il pediatra e psicoanalista britannico Donald Winnicot mostrando come, fin dalla più tenera età, sia proprio attraverso il rapporto con gli oggetti che il bambino affronta l’inevitabile frustrazione connessa al termine della fase di “onnipotenza”, in cui, ricevendo dalla madre supporto costante e pronta risposta a ogni proprio bisogno, sviluppa la percezione di possedere una particolare capacità creatrice rispetto a ciò che desidera. In realtà, nel periodo successivo, in cui il bambino comincia a liberare il proprio bisogno di esplorazione e la ricerca di una prima autonomia personale, si renderà presto conto che la realtà, come le persone che la affollano, ha leggi e intenzioni proprie, non sempre coerenti con le sue necessità. Di fronte a questo terreno di potenziale incertezza, egli si avvale appunto del supporto simbolico di un oggetto particolare, che Winnicot definisce “Oggetto Transizionale”, emblema della tappa evolutiva da lui definita “Area Transizionale”, che si pone come intermedia tra il “momento dell’illusione” dei primi mesi e il riconoscimento della realtà oggettiva. La cosa scelta, istintivamente caricata di significati rassicuranti (esempi classici sono l’animale di pelouche o la bambola preferita), gli consente di venire a patti con l’emergere di questa nuova consapevolezza, di mediare tra la realtà soggettiva e quella oggettiva, trattando l’oggetto scelto come se in qualche modo potesse disporne ed esercitarvi il pieno controllo, ricostruendo così un rassicurante elemento di continuità con la precedente percezione di onnipotenza.
Siamo qui, dunque, in uno spazio che non appartiene né alla realtà interna né a quella esterna, la cui natura giocosa e immaginifica, continuerà a sedimentare e ad agire per tutta la vita nei linguaggi delle arti, nelle infinite possibilità dell’attribuzione simbolica, nei processi creativi. E probabilmente, tornando all’origine del nostro discorso, anche attraverso il rapporto diretto con oggetti futuri ai quali, per scelta o storia personale, si riconosceranno particolari valori simbolici e affettivi, un po’ nel tentativo, proprio come il piccolo esploratore di Winnicot, di venire a patti con le disillusioni dell’imponderabilità, l’impossibilità di un pieno controllo, la solitudine e la perdita della vita adulta.
È a questo punto evidente come una pratica votata all’esplorazione e all’evoluzione delle risorse personali, quale è il Counseling, possa di fatto sviluppare molteplici sentieri di lavoro anche guardando alla dimensione materiale delle esperienze dei propri clienti. Il coinvolgimento degli oggetti, attraverso i quali la persona è portata a porre un primo livello di distanza tra sé e i valori a essi attribuiti, può infatti rappresentare un utile volano perché siano riconosciuti in modo nitido particolari vissuti o significati di difficile individuazione o dispiegate possibilità alternative di azione, non ancora valutate in merito a uno specifico problema. La dimensione materiale diventa così anche un prezioso strumento di agevolazione, al pari dell’utilizzo dei linguaggi creativi, per sostenere gli sforzi di soggetti che abbiano particolari difficoltà nell’esplorazione del proprio problema e delle conseguenti possibilità di cambiamento. L’oggetto fatto “cosa”, seguendo la distinzione proposta da Bodei, nella sua natura simbolica e intimamente identitaria, come illustrato dalle teorie antropologiche di Miller e Douglas, a cavallo tra il mondo interno e quello esterno, secondo quanto dimostrato dalle ricerche di Winnicot, è terreno di proiezioni e metafore, sintesi efficace per consentire ulteriori possibilità di riconoscimento e attivazione di risorse e stati d’animo, affidati, in modo più o meno consapevole, ai loro corpi.
Perché le cose sono prima di tutto corpo, un corpo pieno di segni e di simboli.
BIBLIOGRAFIA
Appadurai A. (2011) Modernità in Polvere. Milano, Raffaello Cortina Editore.
Bodei R. (2011). La Vita delle Cose. Bari, LaTerza.
Douglas M. (2013). Il mondo delle cose. Bologna, Il Mulino.
Fabietti U. (2015). Elementi di Antropologia Culturale. Milano, Mondadori.
Galimberti U. (2006). Dizionario di psicologia. Torino, Utet.
Miller D. (2016). Cose che parlano di noi. Bologna, Il Mulino.
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